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Buon compleanno Europa

I rischi di una burocrazia con troppo potere

Se la burocrazia sostituisce la politica

La pubblicazione di uno stralcio del nostro libro, I signori del tempo perso (Longanesi), in cui si descrivono le strategie utilizzate dagli alti funzionari del ministero dello Sviluppo economico per far fallire nel 2012 il “rapporto Giavazzi”, ha aperto un bel dibattito tra i lettori di staging.lavoce.info sul ruolo della burocrazia come freno allo sviluppo dell’Italia. Volentieri rispondiamo ad alcuni commenti pubblicati in questi giorni.
Diversi lettori (Maurizio Staffa, Costanza Pera, Paolo Bianco, Giovanni) ci contestano di essere troppo teneri con la politica, mentre invece esclusivamente da essa dipendono le scelte su dove e come effettuare i tagli e su quali riforme portare avanti e quali bloccare. Noi invece sosteniamo, e nel libro riportiamo numerosi esempi, che in Italia i rapporti di forza si sono ormai rovesciati e che nessuna vera riforma è possibile se la politica non è in grado di portare dalla sua parte la burocrazia (come scrive Sante Perticaro nel suo commento). Non a caso raccontiamo come l’imperatore del Giappone, alla fine dell’Ottocento, riuscì a disinnescare la minaccia rappresentata da una casta potente come quella dei samurai, che si opponeva alle riforme per modernizzare il paese.
I governi che finora hanno cercato di riformare la pubblica amministrazione, indipendentemente dal loro colore politico, lo hanno invece fatto con la triade “più leggi, più Stato, più repressione”. E hanno fallito. La soluzione che proponiamo è molto diversa: “Più liberalizzazioni, più concorrenza, meno leggi e regole”.
Lorenzo lega poi l’opposizione della burocrazia alle riforme di Matteo Renzi con l’esito del referendum che ha portato alla caduta del suo governo. Già da sindaco di Firenze, Renzi aveva capito la minaccia che una burocrazia forte può rappresentare per la politica e, arrivato a Palazzo Chigi, individuò i primi nemici da combattere proprio nei magistrati del Tar e del Consiglio di Stato alla guida di gabinetti ministeriali e uffici legislativi. Mal gliene incolse perché, a ridosso della consultazione referendaria, la giustizia amministrativa gli ha presentato il conto smontandogli prima la riforma Madia sulla pubblica amministrazione e poi quella, attesa da anni, che imponeva alle banche popolari di trasformarsi in società per azioni. Perché Matteo Renzi ha perso la battaglia con la burocrazia? Innanzitutto perché ne ha sottovalutato il potere: non si può varare una nuova norma contro il Consiglio di Stato ed evidentemente contro la Corte costituzionale. E se si cerca di farlo, le norme varate devono essere inattaccabili.
Luigi Rossetti ha ragione quando afferma che si deve quindi “lavorare sullo snellimento della regolazione piuttosto che sull’ingorgo di procedure e oneri in capo all’utente/impresa”. Sono infatti le regole a rendere necessaria una burocrazia. Il guaio è che i burocrati non sono soggetti passivi, che si limitano a svolgere diligentemente il compito cui sono preposti. Sono individui e istituzioni che fanno i loro interessi e, come tutti, vogliono difendere a ogni costo i loro privilegi.
Detto questo, bisogna quindi fare attenzione. In tempi in cui ci si illude di poter risolvere i mali dell’Italia cacciando la cattiva politica e mettendo in pensione i politici, non ci si rende conto di quali rischi si corrano. Esiste infatti un potere che è più forte della politica, quello della burocrazia, che, inevitabilmente, finisce per prenderne il posto. La differenza è che il politico si può mandare a casa con le elezioni, il burocrate no.
Bisogna allora fare attenzione a voler smontare la politica senza chiedersi cosa verrà dopo. Nel libro proponiamo tre possibili vie d’uscita per limitare potere e privilegi dei burocrati, riflettendo anche se non sia il caso di riproporre il sistema che esisteva in Italia fino a vent’anni fa, in cui la responsabilità delle decisioni amministrative era in capo alla politica anziché alla burocrazia. Con tutti i rischi che ciò comporta, ma che potrebbero essere inferiori a quelli provocati da una cattiva amministrazione: immobilismo e altrettanta corruzione.

Il Punto

Scompaiono i voucher, utili per compensare attività occasionali senza pesi burocratici. Al picco del loro uso, rappresentavano circa lo 0,3 per cento delle ore di lavoro totali. Ma poi la Cgil ne ha fatto una battaglia di bandiera e nessun politico li ha difesi. Ora, almeno, si torni a rafforzare il lavoro a chiamata.
Con il rialzo dei tassi, la Federal reserve trasmette un messaggio di normalizzazione. Del resto i dati dell’economia Usa sono tutti positivi. E l’aumento del greggio e i salari in crescita hanno fatto tornare l’inflazione a quel 2 per cento che per la Fed è una scelta, per la Bce un assurdo vincolo statutario.
Il vero punto critico della riforma della Buona scuola si chiama “valutazione”. Studenti giudicati in modo non omogeneo e ostacoli allo svolgimento delle prove Invalsi. Insegnanti valutati da comitati con metodi discrezionali. Presidi a giudizio dai loro pari a loro volta soggetti a valutazione. Si può fare molto meglio.
Se la Corte costituzionale dice no a misure di taglio delle pensioni più alte, perché non usare lo strumento fiscale? Una “pension tax” divisa in due: solite aliquote Irpef  sulla parte di trattamento accumulato con la capitalizzazione dei contributi e, invece, aliquote più salate e progressive sulla parte “regalata”. Dove è alto il rischio di obiezioni della Consulta è sul progetto di modulare le aliquote Irpef in funzione dell’età anagrafica. Certo, l’Italia non è un paese per giovani. Ma se il reddito di un giovane è pari a quello di un contribuente maturo, perché dovrebbe pagare meno?
I dati dicono che molte Pmi sono ripartite. I casi di successo riguardano tutti i settori, tranne l’energia ma incluse le costruzioni (già in crisi profonda). Crescita dei ricavi e del valore aggiunto, con margini più elevati. Tutto bene? No. Malgrado il calo del costo del lavoro la produttività è sempre troppo bassa.

Quei burocrati che frenano l’Italia

Come ha fatto la burocrazia a diventare un centro di potere capace di ostacolare le riforme e lo sviluppo dell’Italia? Lo spiegano Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri ne “I signori del tempo perso”, di cui pubblichiamo uno stralcio.

Il Punto

Un libro appena uscito racconta come la burocrazia riesca sempre a battere la politica nella difesa dello status quo. Un suo capitolo descrive come il “rapporto Giavazzi” del 2012 – che voleva trasformare 10 miliardi di sussidi in riduzioni di imposta per tutte le imprese – sia stato insabbiato da funzionari ministeriali.
Approvata la legge delega sul contrasto alla povertà con la creazione del Reddito di inclusione (Rei), trasferimento monetario alle famiglie in povertà assoluta. Le risorse sono ancora poche. Ma è l’avvio di un processo verso un reddito minimo universale.
È andata male la produzione industriale di gennaio dopo il mini boom di dicembre. A preoccupare non sono le oscillazioni mensili ma la debole dinamica dell’industria durante l’attuale ripresa rispetto alle riprese del passato. Sull’industria pesa anche la mancanza di credito, con banche strette tra antichi vizi e nuova sottocapitalizzazione. Istituti di credito e imprese se ne facciano una ragione: all’Italia e all’Europa serve un mercato dei capitali ampio, liquido ed efficiente.
Di cosa parliamo quando diciamo “fake news”? Di storie inventate di sana pianta, che sembrano vere o almeno verosimili e non lo sono. Internet ne è inondato. E anche capi di stato, media autorevoli e potenti servizi segreti si accusano a vicenda di diffonderle.
Le discriminazioni sociali si nutrono di luoghi comuni. Uno di questi riguarda l’alta promiscuità sessuale e l’abitudine a rapporti impersonali e mercenari dei maschi gay. Mentre recenti ricerche sociali sugli ultimi 20 anni raccontano di un progressivo abbandono di tali usi. Soprattutto da parte dei più giovani.
Mentre si ragiona di Europa a più velocità, Bruxelles prepara la riforma del bilancio comunitario. Che oggi (essendo solo l’1 per cento del Pil Ue) fa poco per ridurre i divari regionali di reddito nell’Unione. E sul lato delle entrate è distorto da correttivi e sconti sui contributi, compreso quello di cui gode il Regno Unito.

Raul Caruso risponde ai commenti al suo articolo “Come il riarmo americano fa danni all’economia

Gelata di inizio anno sull’industria

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In gennaio la produzione industriale è andata male: -2,3 per cento rispetto al dato di dicembre 2016, con un piccolo ritorno al segno meno (mezzo punto percentuale) rispetto al dato di gennaio 2016 (che era stato particolarmente positivo). I brutti dati di gennaio arrivano dopo i bei dati di dicembre (+1,4 per cento su novembre; +5,8 sul dicembre 2015) che avevano rassicurato sulla solidità della ripresa in atto.
I dati mensili – si sa – sono volatili e possono risentire di elementi casuali. Ad attirare l’attenzione infatti non dovrebbero essere i crolli o i boom mensili ma la debole dinamica di più lungo terminedell’industria durante l’attuale ripresa. Il grafico indica con altrettante frecce la ripresa industriale di oggi e quella di tre analoghi episodi di ripresa del passato: a fine anni novanta, a metà anni duemila e dopo la grande recessione del 2008-09. I numeri sono chiari. Tra il minimo del maggio 1999 e il massimo del dicembre 2000, la produzione industriale salì del 10,3 per cento (dunque a un passo del 6,5 per cento su base annua). Nella ripresa della stessa durata (19 mesi) tra il minimo di maggio 2005 e il massimo di dicembre 2006 si registrò un +9,3 per cento, corrispondente a un dato annuo del 5,9 per cento. Nei 25 mesi (compresi tra il marzo 2009 e l’aprile 2011) arriva la ripresa dopo la Grande Recessione. Uno squillante +14,8 per cento, corrispondente a un +7,1 per cento annuo. Ma in questo caso, la caduta durante la recessione fu particolarmente marcata.
In ogni caso, i numeri della ripresa in corso impallidiscono rispetto alle riprese del passato. Dal minimo dell’ottobre 2014 al gennaio 2017 la produzione industriale è risalita di un magro 4 per cento (+1,8 per cento annuo). E anche prendendo il mese di dicembre 2016 come raffronto, viene fuori un +6,4 per cento.
Sono numeri che fotografano una situazione di difficoltà complessiva dell’industria italiana che sembra non avere fine. Quelli che ce la fanno spesso riescono molto bene e in mercati esteri. Ma, dicono i dati, sono troppo pochi.

 

Sicurezza non fa rima con riarmo

Il Punto

In vista della celebrazione del 25 marzo, Jean-Claude Juncker ha presentato il Libro bianco sul futuro dell’Europa. Non una proposta ma cinque scenari. Dal tirare a campare con l’unione di oggi a una federazione più coesa. Passando per altre idee come la Ue a più velocità e il ritorno al mercato comune.
Mentre il Senato si muove contro la povertà approvando il reddito di inclusione, molto rimane da fare per migliorare le politiche di assistenza. Le varie indennità monetarie che lo stato assegna a 2 milioni di disabili non autosufficienti potrebbero essere affiancate – come avviene in alcuni comuni – da assegni di cura da spendere presso strutture professionali.
Mentre da noi ci si preoccupa di consolidamenti e contenziosi legali, nel mercato globale dei media va in onda la sfida colossal tra Netflix e Amazon. La prima ha già rivoluzionato l’industria audiovisiva. Ma la seconda cresce a doppia cifra, con spalle finanziarie oggi più robuste. Chi vincerà?
La conversione in legge del Decreto milleproroghe presenta ogni anno curiose sorprese. Ad esempio rimanda a fine 2017 il termine per la presentazione dei bilanci 2013-15 dei partiti. Un favore da 200 mila euro per gli inadempienti. Che non sono i grandi partiti ma partitini minori. Che manina c’è dietro la proroga?
Il traffico di influenze illecite su cui si basa l’inchiesta Consip confina con l’attività di lobbying che – se trasparente – è del tutto lecita. In Europa c’è un registro dei lobbisti che conta 11.298 iscritti. In Italia la lista include solo 643 nomi e vale per ora solo per il ministero dello Sviluppo economico.
Quando una riforma fa flop, una delle cause è l’assenza del cosiddetto “ciclo di valutazione” dell’impatto dei provvedimenti politici. Prima ci vuole l’analisi delle ipotesi alternative in campo, poi il monitoraggio in corso d’opera, e alla fine la verifica dei risultati. Sembra facile e logico ma non lo è, almeno in Italia.

Ugo Arrigo, autore di “Alitalia, la zavorra dei costi che impedisce il decollo” e di “Come ridare una rotta ad Alitaliarisponde ai commenti.

Quel circolo vizioso che intrappola Alitalia

Mercato aereo e scelte pubbliche

Molti lettori hanno commentato i miei due recenti articoli sul caso Alitalia (qui e qui). Ripercorro volentieri le principali sollecitazioni ricevute, raggruppate per omogeneità, aggiungendo a ognuna alcune considerazioni.
Per prima cosa: abbiamo proprio bisogno di Alitalia? Se venisse chiusa o venduta a un altro grande vettore europeo, il trasporto aereo non verrebbe garantito egualmente dal mercato? La risposta è senz’altro affermativa. Alitalia era un vettore indispensabile quando trasportava 24 milioni di passeggeri su un mercato che non raggiungeva i 50, ma non lo è ora che ne trasporta 22 milioni su un mercato di 130. Se dovesse chiudere, nell’arco di pochi mesi i suoi 22 milioni di clienti sarebbero presi a bordo da voli aggiuntivi di altre compagnie, come successe all’inizio del decennio scorso con il fallimento di Swissair e Sabena.
Una seconda area di questioni riguarda le scelte pubbliche di settore: se Alitalia nel 2008 fosse stata venduta ad Air France, anziché salvata per inesistenti ragioni di campanile, oggi non avrebbe gli stessi problemi dato che non vi sarebbero stati sei anni di errata gestione Cai, basati su un progetto che intendeva solo restringere la concorrenza. Il nostro paese è pieno di aeroporti minori che erano praticamente vuoti prima dell’arrivo dei vettori low-cost. Poi è arrivata Ryanair e si è fatta pagare per aprire rotte che prima di allora nessuna compagnia si era sognata di considerare. In taluni casi, come Bergamo-Orio al Serio, ha riempito gli scali.
Si tratta di concorrenza sleale? Se i concorrenti non c’erano direi proprio di no. Bergamo è servito da vettori low-cost per il 94 per cento del traffico, Treviso per il 99,7 per cento, Ciampino per il 99 per cento, Trapani per il 97 per cento, Crotone per il 99 per cento. Senza le low-cost il contribuente sarebbe stato chiamato a pagare per conservare in esercizio aeroporti completamente vuoti.

Le tasse dei low-cost

Come si possono definire leali i low-cost quando non pagano in Italia né tasse né contributi sociali e non applicano i contratti di lavoro italiani? Non dimentichiamo che sono entrati nel mercato nazionale inizialmente sui collegamenti infra-comunitari internazionali, non sui voli domestici. In tale caso, non potendosi applicare doppie regole su un medesimo volo, è corretto che prevalgano quelle del paese di residenza del vettore. I voli domestici realizzati in un paese differente sfuggono egualmente alle regole di quel paese in quanto le compagnie, coerentemente col loro approccio low-cost, tendono a non aprirvi stabili organizzazioni. Si può non essere d’accordo, tuttavia perché mai dovrebbero aprire una sede di cui possono fare a meno solo per pagare più tasse?
È utile richiamare in ultimo il circolo vizioso in cui è rimasto intrappolata la nostra ex compagnia di bandiera: 1) Alitalia perde molto per la concorrenza dei low-cost, pertanto viene elaborato un nuovo piano d’impresa che diminuisce aerei e personale (nel 2008, nel 2014 e nuovamente nel 2017); 2) gli spazi di mercato lasciati spontaneamente liberi da Alitalia sono presto occupati dai vettori low-cost che in tal modo accentuano la pressione concorrenziale su di essa, incrementandone le perdite; 3) a questo punto si elabora un nuovo piano d’impresa che ridimensiona ulteriormente Alitalia, lasciando ulteriori spazi ai low-cost, i quali potranno così esercitare ancora maggiore concorrenza…
È evidente che di questo passo, dopo un certo numero di piani d’impresa e di ridimensionamenti, Alitalia sarà arrivata alla chiusura definitiva.

Il Punto

Un altro 8 marzo che registra il solito dato: le donne guadagnano meno degli uomini. In Italia, da 20 anni, le differenze salariali di genere sono rimaste praticamente le stesse e sono più marcate nei lavori meno qualificati e nelle posizioni aziendali di vertice. Molto dipende dalle politiche salariali e organizzative delle imprese. E un abisso si osserva anche tra le star di Hollywood dove i compensi milionari degli attori hanno un altro ordine di grandezza rispetto a quelli delle attrici. Sempre negli Usa ma a Washington (e in altri 40 paesi del mondo) uno sciopero al femminile serve a ricordare cosa succede se per un giorno le donne “non ci sono”. E focalizza l’attenzione sui rischi della misoginia muscolare dell’era Trump.
È accettabile che a una donna, nel civilissimo Nord-Est, venga rifiutata in 23 ospedali l’interruzione della maternità? Il diritto di scelta sancito dalle legge 194 continua a scontrarsi con il diritto all’obiezione di coscienza. Ma le strutture pubbliche devono garantire il primo. Anche con assunzioni mirate come in Lazio.
Foto che si autodistruggono e alto gradimento dei teenager. Quanto basta perché il debutto in borsa di Snapchat sia stato bruciante: +44 per cento. In barba a bilanci in rosso, alto rischio dell’investimento e governance accentrata nei fondatori. Ma il vero pericolo arriva dalla Cina e si chiama WeChat.
Con la nuova presidenza Usa la spesa militare – diminuita progressivamente dal 2011 –  tornerà a crescere massicciamente, per 41 miliardi di dollari. Ma una corsa al riarmo, anziché rilanciare la crescita, farebbe danni sia al capitale umano che al quadro economico generale.

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