Ringrazio i molti lettori che hanno voluto condividere le loro osservazioni e i loro commenti. Come era forse prevedibile, si sono equamente suddivisi in commenti favorevoli e contrari, ma tutti presentano argomenti degni di ulteriore riflessione. Mi sembra però che la simpatia o l’antipatia per questa legge di riforma renda difficile a tutti rispondere serenamente al principale problema che avevo cercato di porre: una volta riconosciute le contraddizioni fra obiettivi (condivisi da molti) e strumenti/risorse (riconosciuti inadeguati dai più), quali le conseguenze del fallimento (ormai probabile) di questo tentativo di riformare l’università italiana? Il modo in cui si è sviluppato il dibattito politico e culturale, la prova di forza intorno a questo ddl il cui significato e la cui portata va ben al di là dei meriti e demeriti del ddl stesso, mi rendono pessimista su queste conseguenze; e in molti dei commenti ricevuti trovo conferma di ciò.
Facciamo un solo esempio dei molti aspetti contraddittori contenuti nel ddl e dei diversi modi in cui si può rispondere a queste contraddizioni. Il nuovo percorso previsto per il reclutamento (la cosiddetta tenure track) si ispira al sistema seguito dalle migliori università in Europa e nel mondo, ma manca una componente cruciale: l’obbligo per le università di accantonare i fondi per il tempo indeterminato da utilizzare dopo il periodo di prova. Come reagire a questa contraddizione?
Si può incalzare il governo (anche dopo l’eventuale approvazione del ddl) a prevedere quest’obbligo per realizzare un vero percorso di tenure track, con numerosi argomenti: che se veramente vogliamo allinearci ai migliori sistemi universitari occorre seguirne la logica che li ispira e non adottare soluzioni parziali che non riuscirebbero a rispondere a quella logica; che se veramente vogliamo favorire il merito e combattere il nepotismo questo è il sistema migliore, perché qualunque sistema concorsuale può fallire nel valutare le capacità e l’impegno nella ricerca e nella didattica di un candidato, mentre il vederlo alla prova per alcuni anni consente a tutti i colleghi di valutare se il “nuovo acquisto” rende il dipartimento più competitivo o meno. Insomma, si può dire: questo è il principio migliore, ma questo governo (o il prossimo che farà la riforma) deve applicarlo in modo coerente.
Oppure si può rispondere che la tenure track “è ben altro”, che questo dimostra che tutta la riforma è un bluff, che sarebbe bastato applicare seriamente la norma già esistente della conferma in ruolo (dimenticando che questa conferma non è mai stata negata a nessuno…). O addirittura rispondere che in questo modo si estende il precariato, si dà più potere ai baroni, ecc.
Ora, è sotto gli occhi di tutti un progressivo slittamento nel dibattito dalla prima risposta alla seconda e alla terza. E resto convinto che il clima culturale che si è creato (il mutamento nelle posizioni del PD, gli slogans delle proteste amplificati dai media e ormai assorbiti dall’opinione pubblica, il ripensamento di molti rettori) è tale per cui, se la riforma non passerà, sarà il terzo tipo di risposta a dominare. Se e quando il dibattito sulla riforma riprenderà, sarà pesantemente condizionato da questi mutamenti nei valori e negli orizzonti in cui si muovono alcuni dei protagonisti e degli opinion leaders.
Un altro tema evocato da alcuni commenti è il fatto che si sia trattato di un tentativo di riforma poco partecipato. Personalmente sono a favore della concertazione delle riforme importanti, ma si tratta di capire chi devono essere gli interlocutori. L’università è diventata una istituzione fondamentale per la crescita economica e lo sviluppo sociale e culturale di un paese e non può quindi essere governata principalmente da e nell’interesse di chi vi lavora. E’ facile banalizzare l’apertura dei cda agli esterni (che esiste da tempo in tutti i paesi avanzati) presentandola come una volontà di privatizzazione o di spartizione fra i partiti. Certo, questi sono rischi purtroppo sempre presenti (anche se le esperienze straniere mostrano che il vero rischio è il disinteresse e lo scarso impegno dei membri esterni), che bisognerà sempre cercare di combattere. Ma non possono essere usati come alibi da docenti o studenti per evitare di render conto a qualcuno che ha il compito di rappresentare interessi più generali, “altri” dai loro.
La risposta ai commenti
Di Federica Laudisa
il 29/11/2010
in Scuola, università e ricerca
Nei commenti dei lettori sono state poste due questioni inerenti il diritto allo studio universitario: l’età per accedere alla borsa di studio, l’importo di borsa relazionato al costo della vita.
In Italia non esiste un limite di età per beneficiare della borsa di studio ma i criteri che determinano l’idoneità sono esclusivamente due: quello economico, avere un valore ISEE inferiore ad una certa soglia, e quello di merito, acquisire un determinato numero di crediti in relazione all’anno di iscrizione. Ne consegue che quando si parla di borsisti non necessariamente si parla di sbarbatelli. In Piemonte, ad esempio, il 2% dei borsisti ha oltre 35 anni; il borsista più anziano ha 71 anni.
Differentemente, in Francia e Germania hanno diritto al sostegno economico gli studenti che non abbiano compiuto, rispettivamente, 28 anni e 30 anni, sebbene in Germania sia in discussione l’innalzamento del limite di età a 35 anni.
Anche questo dovrebbe essere un argomento da prendere in esame in sede di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni.
In merito al commento che giustificherebbe le differenziazioni regionali in ragione sia della competenza regionale in materia di diritto allo studio sia dei differenti costi di vita, il discorso è più articolato e difficile da sintetizzare in poche righe. In primo luogo, il riformato Titolo V della Costituzione stabilisce che l’autonomia legislativa delle Regioni è limitata dalla competenza esclusiva del legislatore statale, cui spetta definire i livelli essenziali delle prestazioni per garantire nel paese l’uniformità delle condizioni di vita. In attesa che avvenga tale definizione vige la normativa attuale, che da talune Regioni non viene rispettata quando fissano degli importi di borsa inferiori al livello minimo previsto, e che presenta il limite di non specificare quali costi la borsa intenda coprire.
Ne consegue che gli importi differiscono da regione a regione senza che vi sia un fondamento oggettivo a tali differenze. Un esempio su tutti: l’importo massimo di borsa dello studente in sede è pari a 2.430 euro in Puglia, a 2.510 euro in Lombardia, a 2.083 euro in Piemonte ed a 1.000 euro in Toscana: è evidente che questi non riflettono i diversi costi di mantenimento. L’importo massimo è poi ridotto in base a differenti criteri, così come è diverso l’importo detratto dalla borsa dello studente fuori sede beneficiario di posto letto, da 1.500 euro a 2.200 euro, e quello detratto per il servizio ristorativo. La difformità non poggia su motivi fondati.
Sarebbe necessario che lo Stato nel riformare la materia del diritto allo studio esplicitasse quali costi di mantenimento la borsa di studio debba sostenere, e conseguentemente il metodo di calcolo dell’importo di borsa che dovrebbe essere lo stesso per tutti gli studenti, come accade nella federale Germania. Regole certe, chiare e uguali per tutti su tutto il territorio nazionale probabilmente favorirebbero anche la diffusione di informazione sulla possibilità di sostegno: le analisi condotte in Piemonte dimostrano che vi è circa un 40% di studenti iscritti al primo anno che non presenta domanda di borsa pur avendone diritto.