Le riforme utili e necessarie sono quelle che adeguano le istituzioni alle circostanze esterne, non quelle che cercano di forzare in una qualche direzione lo sviluppo della società politica e delle istituzioni. Il decentramento e il federalismo sono tendenze generalizzate in tutti i paesi occidentali. La trasformazione della pubblica amministrazione anche. L’Unione Europea pure. Ma con tutti questi temi, la riforma costituzionale non fa i conti. Come dimostrano le scelte pericolose e inefficaci su premierato e Senato federale.
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Più chiari i rapporti tra livelli di governo se la riforma costituzionale esce confermata dal referendum? Non proprio: il limite principale delle nuove norme è di prevedere troppi decisori. Il rischio è la confusione e la crescita della spesa. Se è vero che si supera il bicameralismo perfetto, si definisce “federale” un Senato che ha pochi legami con i territori. Quanto al federalismo fiscale, rimane del tutto inalterato l’articolo 119, che invece andrebbe modificato. E con le norme di transizione c’è il rischio che a Regioni ed enti locali sia tolta ogni autonomia sulle proprie entrate.
Innalzare il numero di firme necessarie a supporto di un referendum da 500mila a un milione, e abolire il quorum. Due semplici modifiche che portano notevoli benefici. Il costo di proporre un referendum sarebbe più alto, e di conseguenza la “qualità” o rilevanza media dei referendum aumenterebbe. Il risultato della consultazione sarebbe deciso solo dagli elettori effettivamente interessati, e non più dagli indifferenti e disinformati. Sarebbe più lineare l’analisi del voto, mentre i partiti dovrebbero prendere posizioni più chiare.
Già in campagna elettorale abbiamo assistito allo spettacolo di chi la spara più grossa nel dibattito politico, e abbiamo dunque cercato di fare un po di chiarezza su dati e cifre, spesso citati a vanvera. Sul referendum costituzionale, anche se si tratta di una tematica apparentemente più ristretta, si rischia lo stesso. Questa settimana riproponiamo dunque il nostro Vero o falso? Informeremo i lettori (contando anche sul loro aiuto) su sviste o eventuali errori.
Il problema dell’Italia non è la sostanziale equivalenza in termini di consenso delle due coalizioni. Anzi, significa che il sistema politico italiano ha ormai trovato un suo schema bipolare e competitivo. La questione è invece la legge elettorale, che va cambiata. Il maggioritario a doppio turno, già utilizzato nell’elezione dei sindaci, unisce due pregi: limita la capacità di ricatto dei partiti estremisti e consolida gli incentivi all’aggregazione tra le forze politiche in due schieramenti contrapposti. E va abbandonato il bicameralismo perfetto.
I dati del nuovo Senato confermano la regola: chi cambia la legge elettorale perde e i parlamentari che l’hanno votata vanno a casa. Il turnover dei senatori dei partiti della vecchia maggioranza è radicalmente aumentato. Nonostante la legge, c’è una nuova maggioranza. Ma è risicata. Serve allora una Grosse Koalition? Non con un elettorato così polarizzato per professioni come emerge dai sondaggi. Si rischiano solo veti incrociati e immobilismo
Le difficoltà economiche e il mutato clima sociale spingono entrambi i poli a insistere più sulla solidarietà territoriale che sull’autonomia. Proposte specifiche mancano su entrambi i fronti. La Cdl si dimentica della devolution. Offre però un patto agli enti territoriali: cedere parte del patrimonio in cambio di risorse derivanti dal recupero dell’evasione fiscale. L’Unione richiama la necessità della “concertazione” tra livelli di governo. E di un Patto di stabilità interno che torni a occuparsi dei saldi di bilancio e non di vincoli sulla spesa.
Dopo l’approvazione della legge sul risparmio, è stato convocato, per il 22 febbraio, il Comitato interministeriale del risparmio. E’ un organo con competenze limitate e ormai obsoleto. Il nostro ordinamento si regge sul ruolo centrale delle Autorità indipendenti, nel presupposto che debbano esercitare i loro poteri in modo del tutto autonomo rispetto alle determinazioni politiche. Per prevenire il rischio di un controllo politico sulla vigilanza è meglio abolire il Cicr. Ma in tempo di campagna elettorale, qualcuno avrà il coraggio di proporlo?
La riforma costituzionale lascia inalterato il meccanismo di finanziamento delle autonomie locali e il sistema dei rapporti finanziari tra differenti livelli di governo fissato nel 2001. Eppure per l’intera legislatura si è bloccata la concreta attuazione del federalismo fiscale. Anzi, negli ultimi anni, con tetti di spesa e vincoli vari si sono inasprite le limitazioni all’autonomia finanziaria di Regioni ed enti locali. Il Governo preferisce affrontare questi problemi con interventi a breve termine, non concordati con gli altri soggetti istituzionali coinvolti.
Con la riforma della legge elettorale non ci sarà nessun passo avanti verso una maggiore stabilità e governabilità. Sarà un sistema con tutti i difetti del proporzionale, ma senza i suoi pregi. Avremo un bipolarismo più debole, con le stesse coalizioni “acchiappattutto” di oggi, altrettanto frammentate ed eterogenee, ma senza il forte vincolo rappresentato dal collegio uninominale. Aumenterà il potere di ricatto dei partiti più piccoli. Mentre il Senato potrebbe avere una maggioranza diversa da quella della Camera. Con prospettive neo-centriste contrarie all’interesse del paese.