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CHI PIANGE SUL LATTE DI PARMALAT

Nei caldi anni Settanta qualcuno aveva scritto sui muri di Mirafiori: "passo qui dentro otto ore al giorno e pretendete anche che lavori?" Oggi gli imprenditori italiani, di fronte alla scalata francese su Parmalat dovrebbero dire: "mi spacco la schiena a fare affari e volete che ci metta anche dei soldi?" Li vediamo oggi su tutti i giornali rilasciare, con facce compunte, dichiarazioni pensose che alternano l’indignazione per la prepotenza straniera al dolore per "filiera alimentare" la cui italianità viene violata, forse per sempre. E via elencando in un’orgia di luoghi comuni per piangere, è il caso di dire, sul latte versato.
Ma dove erano questi baldi capitani d’industria, i loro banchieri e i loro referenti politici quando Tanzi affossava la società con acquisizioni spericolate usando solo i soldi dei risparmiatori e mettendosi in tasca 2,3 miliardi di euro? "Distrazioni" le chiamano pudicamente i rapporti ufficiali, perché è noto che Calisto, ormai avanti con gli anni, si metteva in tasca i soldi di tutti solo perché dimenticava di prendere le pillole per la memoria.
E dove erano i nostri baldi imprenditori quando Bondi risanava la società, ne faceva più che raddoppiare il valore in borsa e riempiva le casse aziendali di liquidità anziché impiegarla in pinacoteche clandestine? Perché non hanno mostrato nessun interesse per il "gioiellino"? Semplice: perché avrebbero dovuto tirare fuori i soldi. Ma scherziamo? Non sono queste le regole del gioco del capitalismo italiano.
E adesso gli imprenditori italiani devono pure mostrare di essere sensibili all’appello del Governo, ma per carità, purché "in cordata" perchè bisogna sempre replicare i vizi del nostro sistema imprenditoriale: tutti insieme, in una ragnatela di scambi di favori, sostegni e ammiccamenti, in cui alla fine gli interessi veri delle aziende finiscono dietro quelli dei baldi alpinisti. Coprirsi, innanzitutto: questa è la parola d’ordine. Se si formerà, i componenti della cordata italiana si presenteranno intabarrati come Totò e Peppino alla Stazione centrale di Milano. E grazie ai tre mesi di tempo generosamente concessi dal Governo potranno mandare a memoria la battuta da dire a muso duro ai francesi: "Noio volevàn savuàr.."

LA SCORCIATOIA DELL’ITALIANITÀ

I dati di una recente indagine su sette paesi europei indicano che la quota di imprese a controllo estero è sensibilmente più bassa in Italia rispetto a Francia e Germania. Il capitale estero può rappresentare un’opportunità importante di crescita. Più che la natura del controllante, conta la capacità del sistema di offrire un ambiente favorevole per fare impresa. Con la scusa di difendere l’italianità si proteggono gli interessi costituiti di una classe dirigente autoreferenziale.

SE LE QUOTE ROSA DIVENTANO MIMOSE

L’8 marzo di ogni anno ci si interroga sulla condizione femminile. Una soluzione per ridurre il divario tra i sessi nel mondo del lavoro è utilizzare le quote. Le prevede ad esempio un disegno di legge che impone di riservare alle donne il 30 per cento dei posti nei consigli di amministrazione delle società quotate entro il 2015. Nel breve periodo, il rischio è quello di cooptare donne non preparate che potrebbero finire per confermare eventuali stereotipi negativi. Né va scartata del tutto l’ipotesi che le quote siano come le mimose: l’omaggio di un solo giorno.

CDA DELLE BANCHE: AFFOLLATI E COSTOSI

Dal 2012, gli azionisti delle società quotate dovranno esprimersi anche sui livelli delle remunerazione dei membri dei consigli di amministrazione e dei manager. Nel settore bancario, la retribuzione dell’amministrare delegato è in genere pari a trenta volte il costo medio del personale, di per sé già piuttosto alto. Ancora più elevata nei due istituti più grandi e più internazionalizzati. I consigli di amministrazione hanno molti membri: probabilmente il gran numero di consiglieri serve a garantire una adeguata rappresentanza ai diversi soci.

PIÙ DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA CONTRO I FURBETTI DEL MERCATINO

Nell’articolo “La Consob e i furbetti del mercatino”, Marco Onado richiama l’attenzione sull’elevata quantità di comportamenti illegali tenuti in anni recenti dai vertici di società quotate ai danni dei propri azionisti di minoranza e creditori. Sono giustamente sottolineate le carenze dell’attività di vigilanza: va però ricordato che questa non è solo imputata a enti e organismi esterni, ma anche agli organi endosocietari cui siano espressamente ascritte funzioni di controllo interno, talora in collaborazione con le stesse autorità di vigilanza.

LA DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA NELLE GRANDI IMPRESE

Le proposte sulla partecipazione dei lavoratori agli organi di controllo delle grandi imprese rappresentano una declinazione dei modelli di corporate governance, assurti all’attenzione pubblica a seguito del caso Mirafiori, funzionali ad assecondare esigenze affini a quelle evocate da Onado nel segno del controllo sulla trasparenza dell’attività dei gestori delle società quotate. Esse però corrispondono a una concezione neo-istituzionalista del diritto societario, secondo la quale è possibile e necessario tutelare gli interessi degli stakeholders pur mantenendosi coerenti all’impostazione contrattualista shareholder oriented. Il problema è che il diritto dell’impresa italiano non offre strumenti di diritto societario idonei a tutelare, se non indirettamente, gli interessi degli stakeholders, dal momento che l’impresa capitalista, nel nostro ordinamento, non ha come scopo necessario il perseguimento di interessi diversi da quello degli azionisti alla massimizzazione del loro profitto.
Cosa si può fare allora de jure condendo, in un contesto in cui gli interessi di una società quotata, dei propri soci e lavoratori sono necessariamente molteplici e, nella larga maggioranza dei casi, reciprocamente conflittuali? Il presupposto è che il diritto deve assumersi seriamente il compito di cercare una composizione dei trade-off di un’impresa, minimizzando i problemi (di agenzia, di azione collettiva, di riduzione dei costi di transazione, eccetera) che essa inevitabilmente fronteggia.
Date queste premesse, il consiglio di sorveglianza del sistema dualistico, ossia l’organo di controllo interno delle imprese di grandi dimensioni e plausibilmente quotate, tali da presentare conflitti potenzialmente ruvidi tra le parti sociali coinvolte, riveste un ruolo emblematico. Nell’ordinamento tedesco che lo concepì, è tuttora utilizzato espressamente come strumento di composizione degli interessi di shareholders e stakeholders, secondo il principio della cogestione (Mitbestimmung). Il sistema di amministrazione dualistico italiano rende, sì, possibili forme di pluri-rappresentanza all’interno del proprio organo di controllo interno, ma, paradossalmente, il legislatore non ha regolato espressamente – sub articoli 2409 duodecies, terdecies e quaterdecies c.c. – la partecipazione in quella sede dei rappresentanti dei lavoratori. Tra le ragioni che spiegano questo risultato non va dimenticata la tradizionale ostilità del mondo imprenditoriale, ma anche di quello sindacale, nei confronti dell’istituto della cogestione.
È quindi apprezzabile che recentemente sia stata da più parti richiamata l’importanza del contenuto delle iniziative legislative intese a favorire la partecipazione dei lavoratori alla proprietà e alla gestione delle imprese, ossia intese, più in generale, ad aumentare il tasso di democraticità interna e di trasparenza delle grandi imprese.

SOLUZIONI TIMIDE

Le proposte di legge sulla rappresentanza dei lavoratori avanzate più di recente sono il disegno di leggeCastro, n. 803/08(Pdl), il DdlTreu, n. 964/08 (Pd), il DdlBonfrisco, n. 1307/09 (Pdl), il DdlArdagna, n. 1531/09 (Pd), e iltesto idealmente unificante dei precedenti concepito, in una prospettiva “bipartisan”, da Pietro Ichino.
In questi progetti, per un verso, si segnala un elevato grado di convergenza verso le forme di partecipazione azionaria dei lavoratori. Per altro verso, non si registra un’uguale importanza riconosciuta all’istituzione di organismi interni di presenza congiunta di rappresentanti dell’impresa e dei lavoratori negli organi societari.

UNA SOLUZIONE NON TIMIDA

Si può fare di più e di meglio. È cioè necessario contemplare, in forma imperativa, tanto l’obbligo di garantire la rappresentanza dei lavoratori, quanto la misura della medesima, come d’altronde avviene nell’omologo istituto dell’ordinamento tedesco a cui ci si è ispirati. Partendo da un presupposto del genere è possibile realizzare un miglioramento significativo della corporate governance delle società industriali italiane le cui azioni siano quotate sui mercati regolamentati.

1. Anzitutto si incentivano quelle imprese a costituire un organo esecutivo della società, il consiglio di gestione (contrapposto al consiglio di sorveglianza) che preservi l’unitarietà e la rapidità del proprio processo decisionale, obiettivo raggiungibile se si evitano eccessi di deleghe interne.
2. D’altro canto si creano i presupposti per realizzare forme di condivisione delle decisioni imprenditoriali, grazie all’apporto del consiglio di sorveglianza, e per accrescere la produttività del lavoro, sulla base dello stimolo che si riconosce ai lavoratori di produrre di più per guadagnare di più, mediante le citate proposte di condivisione degli utili.
3. Inoltre si conseguono vantaggi ulteriori: ad esempio, razionalizzare il rapporto tra soci e amministratori, dato che assume un rilievo peculiare se parallelamente sono finalmente favorite forme di azionariato dei dipendenti.

Alla luce delle emergenze sociali che la congiuntura politica ed economica stentano a risolvere è però necessario dimostrare più coraggio nel modificare le regole di corporate governance in misura incisiva, tale da superare anche le resistenze di parte del mondo sindacale, e garantire contestualmente maggiori tutele ai risparmiatori italiani, da Marco Onado segnalati quali soggetti economici tra i più vessati sullo scenario dei mercati finanziari europei.

LA CONSOB E I FURBETTI DEL MERCATINO

La Borsa italiana è troppo piccola e va sistematicamente peggio delle altre: cresce meno quando i mercati salgono e scende di più quando le cose vanno male. La diagnosi del neo-presidente di Consob è condivisibile. Eppure, a partire dagli anni Novanta le riforme non sono mancate. Ma negli ultimi dieci anni l’elenco delle aziende quotate in cui sono stati individuati comportamenti illegali di ogni sorta è impressionante. E allora è forse utile ricordare che le autorità di mercato hanno innanzitutto un ruolo di vigilanza, in modo da dissuadere i furbetti del mercatino.

TELECOM ITALIA: I PICCOLI AZIONISTI DEVONO SAPERE

Telecom Italia ha già versato 400 milioni all’erario per la vicenda Sparkle (presunta frode fiscale, su cui l’ex Ad di Fastweb, Scaglia, si è fatto alcuni mesi di prigione) e rischia ora di pagare altre centinaia di milioni a causa della sua passata gestione, che avrebbe lasciato mano troppo libera alla Security (il caso Tavaroli-Sismi, per intenderci). Non si sa a quanto salirà il conto, ma presumibilmente a ben di più di 500 milioni. E rimane l’impressione che nell’impresa succedesse di tutto senza che i vertici sapessero alcunché (vero o falso? lo diranno i magistrati).
A metà dicembre il Cda di Telecom Italia (con il voto contrario del consigliere indipendente Zingales) decide di non chiedere i danni  agli amministratori precedenti. Con più di mezzo miliardo in ballo e un’immagine pesantemente compromessa, pare una decisione incredibile. Ma il Cda non dovrebbe fare gli interessi degli azionisti? E in che senso tali interessi sono tutelati dalla decisione del Cda di proteggere gli ex amministratori?
Si parla spesso di capitalismo consociativo, di reti di interessi che legano comunque le società (e chi siede nei consigli) ben oltre gli effettivi legami azionari, ed evidentemente anche quando i legami azionari si sono sciolti.
È stato un bruttissimo episodio, sul quale abbiamo taciuto nella speranza che succedesse qualcosa. Ma evidentemente la cosa sta bene a troppi. E non emergono le ragioni della decisione, e neppure i documenti che giustificherebbero la decisione stessa. Brutto momento per la tutela degli investitori. Brutto per la trasparenza dei mercati azionari.
C’è solo un modo con cui il Cda può fugare il dubbio di voler con una mano lavare l’altra: coprendo le malefatte di passate e presenti gestioni: renda pubblici i rapporti sulla gestione precedente sulla base dei quali ha preso la sua decisione. I piccoli azionisti hanno diritto di sapere.

Formidabile quell’anno di TPS alla Consob

Nel “formidabile anno” (aprile 1997-giugno 1998) in cui Tommaso Padoa-Schioppa fu presidente della Consob, il sistema finanziario italiano presentava un assetto ancorato alla tripartizione dei mercati: il mercato bancario, polarizzato e forte delle sue riserve di attività, governato da un testo unico e da norme bancarie uniformi, ramificato in partecipazioni incrociate con l’industria, le imprese mobiliari e la grande banca d’affari nazionale; il mercato mobiliare, che aveva il suo centro nella Borsa valori – ancora pubblica e a bassa capitalizzazione rispetto alle piazze finanziarie dei grandi centri internazionali – che trovava nelle Sim, in realtà per buona parte possedute da intermediari bancari, un potenziale veicolo di ammodernamento; il mercato degli investitori istituzionali, che vedeva i fondi comuni di investimento affiancare le ben più importanti e meno trasparenti gestioni individuali di patrimoni, le compagnie di assicurazione e i fondi pensione (questi ultimi sulla carta ma non nei fatti).

VERSO IL TESTO UNICO DELLA FINANZA

L’assetto della supervisione era di conseguenza tripartito: la Consob regolava gli scambi di mercato e l’intermediazione non bancaria, cercando una sua identità in un corpo normativo frammentato, che Padoa-Schioppa ereditava nel corso di un processo di unificazione: il Testo unico della finanza era infatti in via di stesura. Le lobby finanziarie si scaldavano i muscoli sui temi più sensibili: la trasparenza e la disciplina del prospetto per le obbligazioni bancarie, la riserva di attività per la gestione dei patrimoni, la trasparenza e la confrontabilità dei prodotti assicurativi rispetto ai prodotti finanziari, l’opacità e la scarsa mobilità degli assetti proprietari. La Banca d’Italia, da cui arrivava il presidente, sovrintendeva alla stabilità macro e microeconomica, ma anche alla trasparenza dei servizi bancari e alla concorrenza tra gli intermediari. L’Isvap vigilava sulle assicurazioni, settore ritenuto opaco e poco competitivo.
In questo contesto, Padoa-Schioppa entrava in una Consob dove stratificazioni di passate gestioni e nuovi ingressi richiedevano un ripensamento e un riordino.
È Padoa-Schioppa a volere per la prima volta la presentazione della relazione annuale della Consob a Milano con un Discorso del presidente al mercato finanziario. Senza enfasi, ma con decisione, sarà lui a negoziare con il Comune di Milano la concessione di Palazzo Carmagnola quale sede dell’istituzione e a trasferirvi alcuni uffici chiave, nel tentativo – in seguito, dopo la sua presidenza, rinnegato – di rendere l’istituzione più vicina alla sede del mercato e alla sua cultura.
Già nel primo mese dall’insediamento, in cui il presidente riceveva direttori e funzionari, leggeva carte e documenti, faceva audizioni e frequenti riunioni della Commissione, prendeva corpo una struttura rinnovata dell’autorità, nelle persone e nell’impianto, che senza particolare clamore ma con grande determinazione veniva varata prima dell’estate.

UN ANNO CRUCIALE

In quei mesi entrarono in dirittura di arrivo il Testo unico della finanza e la stesura dei regolamenti di attuazione, con un confronto anche dialettico con la Banca d’Italia. Guidavano Padoa-Schioppa alcuni convincimenti. Come l’idea, forse tramontata, che la Consob nell’emanare la regolamentazione non coglierebbe il senso della riforma se alla delegificazione non facesse seguire una deregolamentazione: testi snelli, concepiti come regole di principio più che di minuziosa precettistica; delega al mercato, alle associazioni e ai singoli soggetti di funzioni che possono essere da essi efficacemente svolte. O come la ferma presa di posizione per un modello di vigilanza per finalità, nell’affermazione della Consob quale autorità centrale della trasparenza e della protezione dell’investitore per tutti i prodotti finanziari, non solo mobiliari ma anche bancari e assicurativi.
Nello stesso periodo accompagnò la fase finale della privatizzazione della Borsa italiana, che definì, profeticamente, una condizione “necessaria ma non sufficiente per la sopravvivenza del nostro mercato”. E cercò di costruire le fondamenta della piazza finanziaria nazionale, nell’idea non di rafforzare fortini nazionali, che, lui uomo d’Europa e cittadino del mondo, rifiutava ma di partecipare alla costruzione del mercato finanziario europeo sempre più integrato in modo competitivo ed efficiente per aiutare la crescita del Paese: tenterà di riprendere il progetto da ministro dell’Economia, ma senza successo.
Prestò grande attenzione allo sviluppo delle rete delle relazioni internazionali, con la presenza della Consob nei gruppi europei e mondiali di regolazione, e nazionali, con l’organizzazione di incontri pubblici e gruppi di lavoro con accademici e practitioner.
Padoa-Schioppa era un uomo che univa doti rare, se le pensiamo tutte presenti in una persona. Equilibrio, apertura, focalizzazione, competenza, rigore, impegno. La persona giusta per quell’anno cruciale. Giusta anche, con la sua umanità e la capacità di riconoscere i meriti dei collaboratori, per motivare e far lavorare alacremente una struttura che non era adusa a ritmi stressanti. Allo stesso tempo, il suo stile di grand commis internazionale dava alle donne e agli uomini della Consob, soprattutto ai più giovani, la consapevolezza di agire in uno snodo istituzionale essenziale per lo sviluppo del Paese, sotto la guida di un personaggio capace di imporre ai tavoli internazionali dei regulator la Commissione italiana alla testa di quelle istituzioni o comunque al centro del dibattito.
Purtroppo per la Consob, ma fortunatamente per il Paese, nel giugno 1998 – dopo poco più di un anno di presidenza – fu chiamato a far parte del primo board della Banca centrale europea per concretizzare il sogno di una vita: la creazione di una moneta unica e di un organo di politica monetaria sovranazionale.

Cda, quanto mi costi?

I compensi ai membri dei consigli di amministrazione e agli amministratori delegati sono adeguati? Hanno cioè una corrispondenza con i risultati ottenuti dalle società che dirigono? Per un campione di aziende quotate, il costo dei Cda varia dai 600mila ai 15 milioni di euro. Ed è superiore di cento volte al costo medio del personale. La retribuzione dell’amministratore delegato incide per circa la metà. Ma tra emolumenti e utile generato non si riscontra una relazione diretta. Insomma, il costo di questi organi sembra largamente immotivato e determinato da fattori endogeni.

 

Rifondazione capitalista

Le fondazioni bancarie non sono investitori istituzionali perché non rendono conto ad alcun risparmiatore delle loro scelte finanziarie e non hanno peraltro alcun obbligo di rendicontazione della redditività dei loro investimenti. Né sono autonome dalla politica, come mostrano gli ultimi riassetti ai vertici. Vanno dunque riformate, risolvendo l’anomalia di istituzioni non profit che esercitano funzioni di controllo nelle banche. Dovrebbero trasformare gradualmente le loro azioni in azioni di risparmio, evitando di incorrere in perdite in conto capitale.

 

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