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Categoria: Energia e ambiente Pagina 45 di 60

La risposta ai commenti

Scrive il dott. Harari nella sua replica al nostro articolo che il livello dell’’inquinamento delle città del nostro Paese è inaccettabile e che per ridurlo sono indispensabili “strategie ambientali” su macro-regioni. Non si precisa quali dovrebbero essere tali strategie.
La nostra modesta cultura sanitaria non ci permette di esprimere una valutazione informata dell’’impatto sulla salute dell’’inquinamento atmosferico.  Ci pare però utile presentare ai lettori qualche altro parere, perché possano formarsi un’’opinione e, se ne hanno voglia, decidere di approfondire la questione. Ecco dunque quanto scriveva qualche anno fa l’’Accademia Francese delle Scienze (1): “Vi sono numerose incertezze in merito alla rilevanza degli effetti a corto e a lungo termine. Tali incertezze sono legate alla piccolezza del rischio (corsivo nostro). È relativamente facile misurare un rischio relativo superiore a 5, come accadeva trent’anni fa. Negli anni Ottanta dello scorso secolo ci si è occupati di rischi dell’’ordine di grandezza da 1,5 a 2 e già questo risultava molto più difficile poiché i fattori di confusione introducono rilevanti elementi di imprecisione. Ma, oggi, i rischi relativi sono compresi fra 1,02 e 1,05; ci si viene quindi a trovare in una situazione assai complessa in quanto i risultati sono largamente influenzati dal tipo di metodologia utilizzata: la correzione dei fattori di confusione, i modelli matematici che sono indispensabili per l’’analisi determinano infatti livelli di incertezza assai rilevanti… Se si paragonano le diverse Regioni della Francia si può riscontrare una forte correlazione fra la mortalità prematura e il consumo di alcol e di tabacco mentre non è possibile rilevare alcun impatto delle diverse forme di inquinamento sulla speranza di vita o sulla frequenza dei casi di cancro sia a scala nazionale che regionale. In particolare, in Francia, non si registra alcuna correlazione fra l’’evoluzione della speranza di vita e l’’inquinamento atmosferico; la speranza di vita più elevata dell’’intero Paese è quella che si registra nell’’Île de France ossia nella regione più densamente popolata e che fa registrare i livelli di traffico più elevati. Si può inoltre rilevare come le due regioni nelle quali la speranza di vita si è maggiormente accresciuta nel corso degli ultimi decenni sono la regione di Parigi e la Provenza Costa Azzurra. Tali elementi non consentono di escludere che esista un qualche impatto dell’’inquinamento sulla salute ma suggeriscono che non si tratta di fattori che hanno un peso maggioritario”. Analoghe considerazioni, aggiungiamo noi, possono essere presumibilmente svolte con riferimento all’’Italia.
Un impatto, dunque, da non sottovalutare ma neppure da sovrastimare. Come ha fatto notare nel suo commento il dott. Galavotti (AUSL Modena) il rischio della sovrastima è che: “una spasmodica attenzione verso l’inquinamento collettivo riduca l’attenzione dei cittadini sul più grave e rimediabile dei fattori di rischio sanitario: il comportamento individuale”. Al riguardo si segnalano anche le parole di Umberto Veronesi (2): “un atteggiamento, inaccettabile, è quello di cambiare la realtà dei fatti. Un luogo comune, molto diffuso, è quello di affermare che l’inquinamento atmosferico, specie in città, è tale che una sigaretta in più o in meno non fa alcuna differenza. È un’affermazione sbagliata e priva di senso: l’inquinamento cittadino provoca bronchiti, allergie, ma la possibilità che provochi tumore al polmone è minima rispetto a quella del fumo di sigaretta. Pochi lo sanno, ma nell’arco alpino, ad esempio in Friuli, dove si fuma molto, l’incidenza del cancro al polmone è superiore a quella che si registra in città come Milano o Genova. Impegnarsi per un ambiente più pulito è giusto, ma questo non deve distoglierci dalla lotta contro i tumori”. Infatti, secondo il parere del dott. Aldo De Togni (AUSL Ferrara): “una persona che respira per un anno lo smog di una città molto inquinata come Los Angeles inala la stessa quantità di inquinanti combusti che un fumatore introduce col fumo di 40 sigarette”. L’’inquinamento atmosferico, nel peggiore dei casi, sarebbe dunque paragonabile al fumo di una sigaretta ogni nove giorni.
Impatto sulla salute a parte, vale la pena di precisare che il nostro intervento mirava a smentire con i numeri la tesi secondo cui l’’inquinamento nelle città italiane starebbe continuamente peggiorando. Non abbiamo detto – né avremmo avuto gli strumenti per farlo – che il livello attuale del particolato o di altri inquinanti nelle città italiane è alto, basso o accettabile e neppure abbiamo nascosto che le città italiane si trovano in coda alla lista nella graduatoria delle città europee per rispetto dei limiti comunitari in materia di emissioni di particolato. Volevamo e vogliamo richiamare la differenza tra livelli e dinamica, nonché tra livelli assoluti e relativi. Ignorando queste differenze, a nostro avviso, si fa solo confusione. E dalla confusione non nascono buone politiche. In ogni caso, eventuali ulteriori politiche di riduzione dell’’inquinamento atmosferico dovrebbero essere valutate alla luce di un’’attenta analisi dei costi e dei benefici.
Come evidenziato nell’’articolo, le politiche di riequilibrio modale indotto dal potenziamento dell’’offerta di trasporti collettivi (a spese dei comuni) non sembrano superare questo test: avrebbero elevati costi per i contribuenti e benefici molto modesti, se paragonati a quelli conseguiti grazie alla innovazione tecnologica. L’’offerta non crea la sua domanda! L’’introduzione di un pedaggio, abbinata al potenziamento della rete stradale (specie sotterranea) – il cui obiettivo prioritario sarebbe la riduzione dei costi di congestione che risultano essere assai più elevati di quelli correlati all’’inquinamento –avrebbe come beneficio ancillare la riduzione delle emissioni nelle città, perché contribuirebbe alla riduzione della circolazione di autoveicoli. Il potenziamento del trasporto collettivo, in questo caso, verrebbe trainato dalla maggior domanda (di coloro che usano meno l’’auto privata) e dalla maggior velocità di circolazione nelle aree sottoposte a pedaggio. I costi sarebbero molto più bassi. Infatti, per potenziare il servizio a congestione invariata (come nello scenario “riequilibrio modale”) sarebbero necessari più autisti, più mezzi, più spese di manutenzione e più carburante; nello scenario “pedaggio”, viceversa, sarebbe in buona misura possibile potenziare il servizio spendendo in più solo per il carburante e per le manutenzioni, a parità di ore lavorate, di autisti impiegati e di parco autobus. Considerando quanto incide il costo del lavoro sui costi totali di gestione e quanto pesano i mezzi sulla spesa per investimenti…

(1) Académie des Sciences – Cadas, (1999), Pollution atmosphérique due aux transports et santé publique, Rapport commun n. 12, Paris, p. 177
(2) L’’Unità, 13 aprile 2002

Inquinamento: se la diagnosi è sbagliata la terapia non funziona

Non è vero che la qualità dell’aria in Italia è peggiorata. Sono i vincoli dell’Unione Europea a essere divenuti più rigidi e molte città italiane faticano a rispettarli. Si è invece aggravato il problema della congestione stradale nelle grandi aree metropolitane. Ma per risolvere questo problema la strategia più adeguata non è il potenziamento dei trasporti collettivi. Sarebbe preferibile introdurre sistemi di pagamento per la circolazione nelle aree urbane.

Sfogliando la margherita dell’Ecopass

Tra chi vorrebbe rafforzarlo e chi vorrebbe abolirlo, sull’Ecopass milanese si sta per giocare una partita decisiva. Vi sono sul tavolo alcune opzioni per cercare di risolvere i problemi del traffico urbano. L’obiettivo di ridurre l’inquinamento non è però l’unico che un Ecopass riveduto e corretto potrebbe contribuire a raggiungere. Cruciale è anche limitare il congestionamento. E per entrambi gli obiettivi altre ipotesi di soluzione non sembrano altrettanto efficaci.

La risposta ai commenti

L’ intento del mio articolo non era certo quello di promuovere indirettamente l’energia nucleare, come alcuni hanno pensato, né potevo ovviamente allargare il tema a tutte le altre opzioni possibili. Ho voluto solo sottolineare che le energie rinnovabili, e quella fotovoltaica in particolare, hanno costi sociali molto elevati che i loro appassionati sostenitori tendono a dimenticare e si guardano bene dal quantificare. E’ un problema che si pone in tutta l’Europa. Ad esempio, il governo inglese (Dipartimento dell’Energia) ha recentemente stimato che i sussidi alle energie rinnovabili faranno aumentare, nel 2020, il costo dell’energia del 33% per i consumatori domestici. Si tratta in effetti di un’imposta “nascosta” ed iniqua in quanto grava grossomodo egualmente su ricchi e poveri. Se l’obiettivo è quello di ridurre le emissioni di CO2 vi sono modi assai più efficienti e meno costosi: si veda ad esempio il recente studio “Greener, cheaper” sul sito www.policyexchange.org.uk.
Quasi tutti i commenti critici,inoltre, mi accusano di non aver evidenziato anche i costi sociali del nucleare o del termico, ma un tema tanto ampio e difficile non poteva certo essere trattato esaurientemente in una paginetta. Devo però chiarire che il costo del termico o del nucleare francese cui ho fatto cenno nell’articolo non è certo una stima del loro costo sociale ma solo un’indicazione del costo per gli utilizzatori, rilevante per la competitività. E’ ben noto che il costo dell’energia elettrica per le imprese italiane è assai più elevato di quello di altri paesi dell’area euro. Se indirizziamo i nuovi investimenti verso fonti energetiche ad altissimo costo questo handicap competitivo non potrà che peggiorare…”

La risposta ai commenti

Ringraziamo per i numerosi commenti ricevuti, ai quali tentiamo di rispondere.
Innanzitutto è certamente vero che il nostro argomento prende solo spunto dalle richieste di Gheddafi, ma si applica più in generale alle politiche di aiuti ai paesi africani e non, di per sé, alle operazioni di vigilanza. E tuttavia, come ha rilevato Matthew Newman, portavoce del commissario Ue alla Giustizia, gli aiuti comunitari in questo contesto non sono meri trasferimenti per operazioni di vigilanza, ma accordi bilaterali quadro più ampi.
In secondo luogo, come rileva un commentatore, il fatto che gli aiuti siano anche rivolti ad azioni di polizia, potrebbe aggravare il quadro, specie se distoglie gli aiuti da altri sbocchi: i respingimenti sul fronte libico aprono altri fronti (la Grecia, ad esempio) e i contenimenti potrebbero produrre effetti non duraturi.
Infine, con riferimento al commento generale del Prof. Orsi, non possiamo –  anche qui – che concordare: quando si parla di numeri bisogna esser sempre rigorosi (anche se ciò non deve portarci alle estreme conseguenze di allegare i modelli agli editoriali o introdurre i referaggi). Siamo in particolare d’’accordo sul fatto che bisogna resistere alla tentazione del ‘contro-intuitivo’ a tutti costi e che dietro una ipotesi posta a verifica empirica debba poter esserci una qualche ipotesi teorica (anche qui però senza esagerare, nel senso che molta parte delle teorie comportamentali recenti sono nate e progredite anche dai puzzle contro-intuitivi suggeriti dall’’analisi dei dati). Proprio per questo, ci sentiamo di poter respingere la sua critica nel nostro caso, sul quale non vi è soltanto una ipotesi, ma addirittura una ricca letteratura teorica che, purtroppo, fino ad oggi ha ricevuto scarsa verifica empirica. Il nostro punto di partenza è stato proprio quello di tentare di fornire -– con tutti i caveat del caso –- una verifica empirica a tale letteratura, seguendo un approccio metodologico proprio nel senso suggerito da Orsi. L’’esistenza della dinamica cui facciamo riferimento è oggi sostenuta dalla maggioranza degli esperti di migrazione internazionale. Non è rimasto quasi nessuno, oramai, ad affermare che i flussi migratori siano il puro risultato di “push factors” (in primis la povertà assoluta), mentre la quasi totalità della letteratura sul tema oggi riconosce che la migrazione internazionale segua principalmente i canali aperti dalle relazioni economiche (sia commerciali sia di cooperazione allo sviluppo). Il nostro lavoro intende dunque essere un supporto empirico a modelli teorici consolidati e ad analisi socio-economiche condivise che da molti anni sono al centro della letteratura scientifica (per citarne qualcuno: Schiff, M., 1994 “How Trade, Aid and Remittances Affect International Migration“, Policy Research Working Paper 1376, World Bank; Martin, P.,  1993 “Trade and Migration: NAFTA and Agriculture“, Institute for International Economics, Washington D.C.; Martin, P., 1998 “Economic Integration and Migration: The Case of NAFTA“, IGCC  Working Paper; Martin, P. and Taylor, J.E., 1996 “The Anatomy of a Migration Hump“, in J. E. Taylor (eds.) Development Strategy, Employment, and Migration: Insights form  Models, OECD, Paris, pp. 43-62; Vogler, M. and Rotte, R., 2000 “The Effects of Development on Migration: Theoretical Issues and New Empirical Evidence“, Journal of Population Economics, 2000(13): 485-508; Olesen, H., 2002 “Migration, return and Development: An Institutional  Perspective“, International Migration, 40(5): 125-150; De Haas, H., 2004 “International Migration, remittances and Development: Myths and Facts“, Third World Quarterly, 26(8): 1269-1284.).
Per quanto riguarda la nostra affermazione (“tanto più un paese riceve aiuti economici internazionali, tanto più da quel paese si origineranno flussi di migrazione internazionale”) e alla base del titolo, certo ad effetto (ci siamo chiesti se un punto interrogativo fosse stato più appropriato), del nostro articolo, confermiamo che la nostra conclusione è il risultato di una stima econometrica eseguita con “severità”.
Nello specifico, rispondendo a quanti ci chiedono dettagli sul modello statistico, abbiamo sviluppato un modello a due equazioni, stimate simultaneamente, benché consapevoli che le tecniche econometriche non consentono mai una esatta identificazione dei nessi causali. Con questo caveat,  comunque, i risultati ottenuti superano con successo i tradizionali test diagnostici. La prima equazione descrive il tasso di emigrazione –dai paesi sub-sahariani verso i paesi OCSE – come funzione degli aiuti internazionali e di un set di variabili di controllo: le principali sono l’’indice di sviluppo umano (che include speranza di vita, istruzione, e reddito), l’’indice di povertà (basato su un set di sottoindicatori per probabilità alla nascita di non sopravvivere sino ai 40 anni, tasso di alfabetizzazione, accesso ad acqua potabile, denutrizione infantile), l’’esistenza di conflitti, l’’accesso e diffusione di internet, l’’accesso e diffusione della televisione, e un vettore di dummies per controllare per l’’effetto delle relazioni coloniali tra paesi africani e paesi europei. La seconda equazioni invece serve a spiegare la variabilità (tra i paesi africani) degli aiuti internazionali ricevuti, in funzione di povertà, reddito nazionale lordo e apertura commerciale. In questo modo, teniamo conto, almeno parzialmente, della possibile endogeneità degli aiuti internazionali. Il modello è stimato attraverso un three-stage least square in cui i due ultimi stadi sono iterati fino ad avere convergenza nella stima dei parametri. L’’analisi diagnostica del modello, svolta attraverso il Sargan test sulle cosiddette overidentifying restrictions, ci permette di validare statisticamente la scelta delle variabili strumentali utilizzate nel modello; infine, il test di Wald su tutte le specificazioni del modello considerate, ci permette di rifiutare l’’ipotesi nulla di non significatività congiunta dei parametri. Nelle varie specificazioni non si presenta nessun problema di collinearità. La nostra analisi principale è di tipo cross-country, ma è stata replicata con successo sia (ove i dati lo hanno permesso possibile) su time series, opportunamente detrendizzate.
Detto questo, siamo convinti che il tema è troppo importante per le implicazioni di policy che ne derivano e per questa ragione ogni cautela suggerita è più che benvenuta. La nostra ricerca sul tema continua, in particolare nel tentativo di individuare se esista una soglia critica di aiuti che, a parità di altri fattori economici e istituzionali, possa determinare una inversione nella relazione che abbiamo osservato.

Tira ancora una brutta aria

Un recente studio sugli effetti dell’inquinamento atmosferico sulla salute in Italia conferma che un incremento delle polveri sospese provoca un aumento della mortalità e dei ricoveri per malattie respiratorie. Nuove evidenze emergono per quanto riguarda i danni alla salute dei bambini e le malattie cardiache negli adulti. I dati indicano anche che solo tre città su dieci rispettano i valori delle concentrazioni giornaliere di Pm10 e biossido di azoto. Le enormi responsabilità del traffico.

Ma quelle fonti di energia hanno costi esorbitanti

Gli investimenti nel fotovoltaico, fiorenti grazie agli incentivi introdotti nel 2007, rappresentano un perdita secca per la collettività. Non riescono ad ammortizzarsi nemmeno in parte. Probabilmente si raggiungerà una potenza installata vicina ai duemila megawatt e l’onere annuale per il Gse salirà così ben oltre il miliardo. Fuorviante definirla una energia “rinnovabile”: finito il sussidio non resterà nulla, mentre si dovranno smaltire milioni di pannelli obsoleti.

Il fotovoltaico, un investimento per il futuro

Il fotovoltaico è uscito dalla fase di sperimentazione e affronta quella dell’industrializzazione, con innovazioni tecniche continue e riduzione di costo inimmaginabili solo pochi anni fa. Lo si deve soprattutto alla determinazione con cui alcuni paesi hanno sostenuto le imprese del settore, riconoscendone le prospettive di lungo periodo. Anche in Italia ha dato un importante impulso alla ricerca e fatto nascere centinaia di aziende. Ma il meccanismo di incentivo ha limiti chiari e dovrebbe essere migliorato.

Auto elettrica: sarà la volta buona?

L’’ora dell’’auto elettrica, annunciata da normative sulle emissioni sempre più stringenti, sembra finalmente arrivata. Ma quante se ne venderanno? Quali gli impatti sul sistema elettrico? Una penetrazione dell’’1 per cento corrisponderebbe allo 0,3 per cento dei consumi finali, circa 250 milioni di euro l’’anno ai prezzi attuali. Con un nuovo ruolo per i distributori di energia elettrica che grazie alle prossime reti intelligenti, gestiranno una nuova capacità di riserva contribuendo a un miglior sfruttamento del potenziale delle fonti rinnovabili.

Pozzi di petroli a rischio dal Messico al Mediterraneo

Grande preoccupazione ha destato l’’annuncio di prossime trivellazioni petrolifere in acque profonde nel golfo libico della Sirte. Il timore è che possa ripetersi il disastro del Golfo del Messico con conseguenze questa volta fatali per il nostro mare. Bene se verranno prese misure di prevenzione. Ma il vero problema è che per il Mediterraneo ogni giorno transita via nave tutto il petrolio per il nostro continente e il rischio è continuo. La vera soluzione è una sola: la transizione verso un mondo senza combustibili fossili.

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