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Categoria: Energia e ambiente Pagina 42 di 60

USCIRE DALL’ATOMO, COME LA GERMANIA

La scelta di uscire irreversibilmente dal nucleare presa dal governo tedesco è una decisione storica, coraggiosa e destinata a influenzare le politiche energetiche degli altri paesi europei e probabilmente di tutte le altre nazioni industriali. È accompagnata da una serie di provvedimenti e investimenti sulle fonti rinnovabili. Che cosa impedisce all’Italia di seguire la stessa strada? Perché non possiamo diventare almeno la seconda “green economy” del mondo sviluppato?

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Molti sono stati i commenti al nostro articolo. Non è possibile rispondere a ciascuno. Così scegliamo di rispondere (collettivamente) solo ai lettori critici, lasciando da parte quelli che hanno mostrato apprezzamento per i nostri argomenti e hanno avanzato anche spunti meritevoli di approfondimento. Tra i critici prevalgono gli argomenti contrari alla privatizzazione, e ci attribuiscono addirittura una "voglia di privato" dedotta non si sa bene da che cosa. Ma non era e non è nostra intenzione discutere di questo: ognuno la pensi come vuole e vada o non vada a votare come vuole. Non è nostra intenzione dare indicazioni di voto. L’importante è che sia chiaro a tutti per cosa si va a votare. Alcuni degli argomenti critici potrebbero trovarci in linea di principio d’accordo (Stiglitz l’abbiamo studiato anche noi), se quella di cui stiamo parlando fosse davvero una privatizzazione: peccato che, invece, non lo sia affatto.
La campagna referendaria ha profuso una grande quantità di inesattezze e forzature, che ormai hanno dato vita nella mente delle persone a un mostro virtuale. Qui non si tratta di monarchia o repubblica. Non stiamo parlando di sottigliezze, ma di qualcosa di sostanziale. Alla gente che va a votare si sta facendo credere che il voto è "contro la privatizzazione" e "contro l’ingiusto profitto". Perfino la RAI, negli spot informativi, descrive la norma oggetto del primo quesito come quella che "consente l’affidamento della gestione a privati" (sic). Ci dispiace per chi in buona fede lo ha creduto e tuttora lo crede, ma purtroppo non è così.
Primo punto. Checché vi abbiano fatto credere, la norma oggetto del primo quesito non riguarda la privatizzazione dell’acqua (o del servizio idrico), bensì l’obbligo di gara. Se vincerà il no, non ci sarà nessun obbligo di privatizzazione, perché la legge non prevede quello. Se invece vincerà il sì, non ci sarà nessun divieto di coinvolgere privati, perché nella norma che riprenderebbe vita (la cui abrogazione parziale prevista dall’art. 23-bis verrebbe annullata) la gestione dei servizi a rilevanza economica può essere effettuata mediante società pubblica, concessione a privati o società mista, come infatti è stato finora.
L’unica cosa che cambierebbe veramente è che con la vecchia norma la scelta della gestione in house potrebbe avvenire in modo diretto e senza ulteriori spiegazioni (non solo per l’acqua, ma per tutti gli altri servizi locali). Con la nuova norma che si vuole abrogare, invece, il comune che desidera mantenere la gestione pubblica può farlo, (i) se riesce a dimostrare che la gara è inutile, meritandosi la deroga di cui al comma 3, oppure (ii) se l’azienda pubblica partecipa alla gara e la vince. Non esiste alcun obbligo di vendere il 40%: questa opzione serve solo se si vuole a mantenere l’affidamento esistente senza invocare la deroga, ma ci sono sempre le altre due strade, ugualmente possibili e legittime. Molte aziende si stanno organizzando per ottenere la deroga per il mantenimento dell’in house, e dati i criteri fissati molto generosamente dal DPR 168/2010, con ogni probabilità ci riusciranno.
Chi dunque sostiene che il referendum è "contro la privatizzazione", evidentemente non conosce bene la norma che vorrebbe vedere abrogata. E chi, pur conoscendola molto bene, continua a raccontare favole solo perché – se la verità venisse detta fino in fondo – la gente non andrebbe a votare, fa solo disinformazione. Il decreto Ronchi non obbliga nessuno a privatizzare. Abolirlo, non impedisce a nessuno di privatizzare. Chi non ne fosse ancora convinto, è pregato di informarsi meglio.
Secondo punto. Acqua gestita dal pubblico non vuol dire acqua gratis, perché i costi qualcuno li deve pagare. Che sia la fiscalità o la tariffa, questo qualcuno sono sempre i cittadini. È incredibile come tanta gente sembri non capire una cosa così elementare. L’impatto distributivo di fiscalità e tariffe non è identico, ma non è affatto scontato che la fiscalità sia più progressiva (e quindi più egualitaria) della tariffa. Discutiamo semmai di come costruire le tariffe in modo da evitare impatti sociali troppo gravosi: si può fare, ci sono molti modi per farlo. Ma ai referendari preme invece convincere i cittadini che le tariffe sono elevate per colpa del profitto, e che si possano abolire senza aggravio per la fiscalità. Parlano di "fallimento del full cost recovery": ma che fallimento sarebbe, visto che è praticato in tutto il mondo? E soprattutto dalle gestioni pubbliche che funzionano, dalla Scandinavia alla Germania, dall’Olanda agli Usa? Ma se poi gli si chiede come pensano di coprire quei costi cincischiano: li vogliono in fiscalità generale, ma senza aumentare le tasse.
E, nell’impossibile tentativo di far quadrare il cerchio (diritti per tutti, tariffe basse e niente nuove tasse), sono costretti a inventarsi o improbabili riduzioni di altri capitoli di spesa (i mitici cacciabombardieri, la solita riduzione dell’evasione fiscale); a sostenere cose impossibili, come il fatto che se si fanno investimenti per ridurre le perdite questo farà diminuire i costi, e permetterà di finanziare l’investimento con i risparmi, mentre qualunque tecnico sa che accadrà esattamente il contrario, ossia che per ridurre le perdite i costi devono aumentare; o a prospettare strumenti finanziari – patacca, come i bond irredimibili (un vero e proprio furto ai danni delle generazioni future, cui rimarranno i debiti da pagare ma non le reti, perché un bel giorno dovranno essere rifatte daccapo con tariffe più alte o nuovo debito).
La questione tuttavia è: ammesso che la fiscalità riesca a recuperare qualche margine di manovra, rinunciando al cacciabombardiere o catturando qualche evasore, per cosa è opportuno utilizzare in via prioritaria queste risorse? Per diminuire la pressione fiscale? Per gli ammortizzatori sociali, l’istruzione, il welfare, i beni culturali? Oppure per la bolletta dell’acqua? Perché usare il denaro pubblico per finanziare un obbligo di servizio universale che è già affermato e garantito (visto che l’acqua arriva già in tutte le case), e costa in media solo 90 euro all’anno pro capite (25 centesimi al giorno), ed è dunque già alla portata di (quasi) tutti? I cittadini devono sapere che acqua gratis non significa non pagare dazio, ma significa meno spesa pubblica in qualche altro capitolo. E’ legittimo scegliere più acqua a basso prezzo e meno welfare (noi non siamo d’accordo, ma sono ammesse opinioni diverse). Ma non è legittimo far credere che la scelta sia tra acqua gratis e acqua a pagamento.
Sembra che campagna referendaria stia riportando a galla una cultura tipica degli anni 70 e 80 del secolo scorso: quando tutti invocavano diritti, ma nessuno si preoccupava di come avremmo pagato i costi corrispondenti. Il risultato, allora, fu gran parte del debito pubblico che ancora abbiamo sulle spalle. Ci è servito per molti anni a pagare spesa corrente, dalle pensioni baby, a una sanità il cui costo sistematicamente sfondava i tetti previsti, a un settore pubblico usato come ammortizzatore sociale. Ora, non paghi di aver depredato le generazioni future con la finanza allegra di quel periodo, si imbrogliano le carte in modo da farci credere che questo ennesimo pasto gratis si auto-finanzi. I cittadini sappiano che, invece, i pasti gratis esistono solo nel paese dei balocchi. Su questo non sono ammesse "opinioni", così come non ne sono ammesse sulla legge di gravità. L’aritmetica può essere assai sgradevole, ma non è un’opinione, purtroppo (o per fortuna).
Ci preme peraltro di ricordare che, tuttavia, se il secondo referendum dovesse passare, verrebbe abolito l’inciso "adeguatezza della remunerazione del capitale investito", ma non il principio del "full cost recovery", ribadito nello stesso comma dello stesso articolo, giusto una riga dopo.
La tariffa, con o senza referendum, continua a dover coprire il costo del servizio, ossia il costo della gestione, l’ammortamento e il costo del capitale investito. Se la finanza pubblica vorrà mettere a disposizione circuiti agevolati, o al limite anche a fondo perduto, potrà eventualmente farlo (nessuno glielo impedisce: basta votare una legge finanziaria che lo preveda), ma finché non lo farà, il gestore i soldi li deve chiedere al mercato (ossia alle banche, agli investitori). E quel costo andrà pagato.
Terzo punto. L’acqua costa meno se la gestisce il pubblico? Qui si confonde il costo (ossia gli stipendi, i materiali, gli impianti, l’energia, gli interessi sui debiti) con la tariffa. Se le tariffe non coprono i costi, le aziende falliscono. Se le gestioni sono vincolate a recuperare i costi con le tariffe, una diminuzione di queste può aversi solo se i costi diminuiscono, ossia se la gestione diventa più efficiente (usa meno personale, acquista meno servizi o tecnologie meno costose), oppure se non si fanno gli investimenti. In un settore in cui la concorrenza non c’è e anche le gare funzionano male, la presunzione di superiorità del privato da questo punto di vista è spesso contraddetta dai fatti, ma se è per questo ciò non significa neppure il contrario. Vent’anni di studi empirici concludono sostanzialmente in pareggio, e mostrano che l’efficienza aumenta dove il sistema di regolazione funziona meglio (si può fare, senza dimenticare che anche la regolazione indipendente incontra limiti non è certamente una bacchetta magica). Niente osanna alla mano invisibile, dunque: ma neppure ostracismi a prescindere. Se molti lettori avessero la bontà di non partire in quarta citando esperienze note solo in via aneddotica e si volessero confrontare seriamente con la montagna di studi che la ricerca ha profuso in questi anni, scoprirebbero che le cose non sono così ovvie come la vulgata tende a far credere.
Ribadiamo che la norma (e il referendum) non intervengono su una tabula rasa, e che non è certo questo voto il modo per prendere posizione sulla questione. I piani d’ambito sono già approvati, la dinamica tariffaria già prevista (in base alle norme vigenti, uguali per tutti, che il referendum non abroga), le regole per definire revisioni dei piani sono già stabilite. Un’eventuale gara da lì dovrebbe partire; se l’offerta fosse uguale o peggiore rispetto a quella dell’affidamento già in essere, il comune avrebbe tutte le ragioni per mantenere l’affidamento in essere. Dunque le tariffe non possono aumentare oltre a quanto già previsto, ma semmai diminuire, o aumentare di meno.
Qualcosa potrà cambiare, semmai, se cambierà il metodo tariffario normalizzato, cosa che peraltro anche noi auspichiamo: sarà uno dei principali compiti della nuova agenzia di regolazione, che attendiamo al varco. La tariffa deve incentivare il gestore a ridurre i costi (si può: se ci riescono in altri paesi possiamo riuscirci anche noi), consentendogli di guadagnare il giusto (ossia, il costo del finanziamento sul mercato e il premio per il rischio che si assume investendo). Il rischio è una variabile che dipende dalla regolazione: più il costo va in tariffa "a piè di lista", più limitato è il rischio; più il costo è definito ex ante e tenuto fermo, più elevato è il rischio.
Ce n’è abbastanza, a questo punto per dire a tutti, critici e sostenitori: arrivederci a Trento, o meglio a Rovereto, dove sabato 4 uno di noi due (non vi diciamo chi) si scontrerà sul ring con Ugo Mattei, e voleranno, se questo è il clima, botte da orbi. Speriamo che la prospettiva di veder scorrere il sangue faccia aumentare l’audience!

P.S. due risposte ad personam:

A Marco Bersani: prima di affermare cosa "sanno tutti gli economisti", abbia la bontà di consultare qualcuno che l’economia la conosca davvero; se gli economisti che affermano le cose che lui sostiene sono per caso gli stessi che gli hanno suggerito i bond irredimibili, ci viene il dubbio che lo abbiano imbrogliato per bene.

A Salvatore Acocella vorremmo solo ricordare che 1) se gli attuali assetti di regolazione sono molto difettosi (per esempio quello del settore autostradale), non significa che non possano essere messi in piedi assetti migliori, che tendano a minimizzare sistematicamente gli extra-profitti; se altri ci riescono, non è vietato che ci riusciamo anche noi. 2) Poste e Ferrovie non sono mai state privatizzate (in Italia): sia Poste che F.S. sono società per azioni, il cui controllo totalitario è pubblico, di preciso del Ministero dell’Economia. Le informazioni a supporto di tanto sarcastico ideologismo dovrebbero almeno essere esatte. 3) com’è che il settore pubblico è corrotto e incapace quando si affida a privati, e invece non lo è quando gestisce in proprio? Non sarà forse che quando gestisce in proprio inefficienze e disservizi passano più facilmente sotto silenzio? Perché se dal rubinetto esce l’arsenico l’Acea va sbattuta in prima pagina mentre la gestione pubblica di Viterbo invece no? Perché si cita Girgenti Acque (Agrigento, peraltro molto più pubblica che privata, visto che il socio "privato" è il gestore pubblico di Catania) come emblema del disservizio, e si tace che quel disservizio esiste da un secolo e nessuno, né il pubblico né il privato, ha saputo finora porvi rimedio?

L’ECOPASS ELETTORALE

Tra le molte promesse di Letizia Moratti in vista del ballottaggio che la vede partire in svantaggio, c’è l’abolizione del pagamento dell’Ecopass per i residenti a Milano. Eppure proprio il sindaco uscente ha voluto quel provvedimento, salvo poi licenziare l’assessore che l’ha realizzato su pressione degli alleati. Ed era così convinta dell’utilità della pollution charge milanese da sottoscrivere i referendum cittadini per il suo rafforzamento. Al di là dei riflessi sulla salute dei milanesi e sulle finanze comunali, resta da chiedersi quanto la mossa sia credibile.

SVILUPPO VERDE? L’ITALIA NON CI CREDE

Molti paesi hanno risposto alla crisi del 2008 varando i pacchetti verdi, misure di promozione dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili. Tre anni dopo l’Italia discute di riforme che dovrebbero ridare slancio alla crescita. Dai documenti ufficiali si apprende che l’energia e l’ambiente non figurano tra le priorità del governo, mentre lo sono l’edilizia privata e il turismo. I pochi provvedimenti inseriti derivano da direttive europee. La scarsa sensibilità verso il tema della sostenibilità fa trascurare anche i potenziali vantaggi rispetto al ciclo economico.

REFERENDUM SULL’ACQUA: LE DOMANDE GIUSTE

Domande e risposte sui referendum numero 1 e 2. Non si prevede alcuna privatizzazione dell’acqua, ma la legge non mette in discussione neppure la natura pubblica del servizio, l’universalità dell’accesso, il diritto soggettivo dei cittadini a riceverlo a condizioni accessibili. Non è l’ingresso dei privati nella gestione dei servizi idrici a far salire i prezzi. E in ogni caso la tariffa dovrà continuare a coprire gli investimenti. Da evitare invece che contenga extraprofitti. La gestione dell’acqua è uno dei temi di cui si discuterà a Trento al Festival dell’economia, a cui parteciperà anche uno degli autori di questo articolo.

 

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Una precisazione. Mi pareva chiaro, nel contesto, che “energia termica”, contrapposta a “energia fotovoltaica” fosse una abbreviazione per “energia (elettrica da fonte) termica”. Quanto alle stime, nessuno può sapere con esattezza quanta potenza verrà allacciata con tariffe 2010. Alcuni, vedasi Corriere dell’Economia 4.4.2011, riportano stime maggiori delle mie. Nel decreto appena uscito la stima è di un costo annuo di 3,5 miliardi, penso molto prudenziale e comunque non lontano dai 4 miliardi da me citati.
Nel nuovo decreto si prevede che a fine 2016 si arriverà ad una potenza di 23 mila MW, con un costo annuo per sussidi di 6-7 miliardi di euro. La produzione di energia elettrica da fotovoltaico arriverebbe dunque a circa 28.000 GWh, il 9% di 300 mila GWh, che è tutto il consumo italiano di energia elettrica (in diminuzione da alcuni anni). Al prezzo di mercato di 65 euro per GWh la produzione italiana “vale” un po’ meno di 20 miliardi di euro: si conclude che per produrre quel 9% il costo complessivo dell’energia elettrica in Italia aumenterà del 30-35%. Aggiungendo i sussidi alle altre rinnovabili nel 2016 avremo aumentato di oltre il 50% il costo dell’energia elettrica in Italia: davvero un’ottima politica energetica! 
Ma il costo del fotovoltaico non si limita ai sussidi pagati. Nessuno sembra considerare gli effetti sull’equilibrio della rete. Un impianto fotovoltaico produce mediamente attorno a 1300 ore l’anno, cioè il 15% del tempo. Se la produzione da fotovoltaico raggiunge il 9% del totale annuo significa che quando c’è buona insolazione potrebbe fornire più del 50% di tutta l’energia richiesta. Poiché i ritiri di energia da fonti rinnovabili hanno la precedenza, tante centrali termoelettriche dovranno allora interrompere la produzione: come, visto che quelle centrali non possono essere accese e spente ad libitum? Quanti altri indennizzi saremo chiamati a pagare per compensare queste perdite?

LA FOLLIA DEL FOTOVOLTAICO

Con gli incentivi al fotovoltaico si è caricato sulle spalle degli italiani un debito di quasi 90 miliardi, il 5 per cento di tutto il debito pubblico. Il costo per la collettività ha assunto dimensioni tali che appare inevitabile una stretta sulle nuove installazioni. Così, molti dei posti di lavoro creati nel settore andranno persi. E per un paio di decenni potremo investire ben poco nel fotovoltaico, rinunciando ai benefici delle innovazioni tecnologiche. Più saggiamente, altri paesi europei hanno deciso di spalmare incentivi e investimenti sull’arco di più anni.

INVESTIAMO IN RINNOVABILI E RISPARMIO ENERGETICO

All’inizio della legislatura è stato riproposto, non senza polemiche, il nucleare nel mix energetico del nostro paese. Gli avvenimenti in Giappone hanno ancora una volta posto in primo piano i rischi di questo tipo di tecnologia riportando alla mente quanto accaduto a Černobyl’ il 26 aprile del 1986 insieme alla pericolosità delle stesse centrali nucleari. Oggi, l’opinione pubblica italiana è fortemente contraria all’utilizzo dell’atomo per produrre energia. In un recente sondaggio del Sole 24Ore nel quale veniva chiesto agli intervistati se erano o meno favorevoli al ritorno al nucleare, il 61 per cento delle persone si è dichiarato contrario, mentre alla domanda su quale futuro energetico sia auspicabile per il paese, il 59 per cento ha risposto dicendosi favorevole alle fonti rinnovabili e solo l’11 per cento al nucleare.

REFERENDUM VECCHI E NUOVI

Qualche volta la memoria storica del nostro paese dimostra di essere piuttosto corta. Nel 1987 gli italiani furono chiamati a pronunciarsi su tre referendum in materia di nucleare: il primo per “l’abolizione della procedura per la localizzazione delle centrali elettronucleari”, il secondo per “l’abolizione dei contributi a Regioni e Comuni sedi di impianti elettronucleari” e il terzo per “l’abolizione della partecipazione dell’Enel alla realizzazione di impianti elettronucleari all’estero”. In tutti e tre i casi le percentuali di contrari furono schiaccianti: rispettivamente 80,6 per cento, 79,7 per cento e 71,9 per cento.
Come prevedibile il “nuovo” referendum sul nucleare, che si terrà il 12 e il 13 giugno prossimo, dovrebbe trasformarsi in un plebiscito di voti contrari e, se così fosse, sarebbe davvero opportuno mettere da parte una volta per tutte l’argomento e investire massicciamente su fonti pulite e inesauribili come sole e vento. Non possiamo più correre dietro a una tecnologia che le Regioni non vogliono e che l’opinione pubblica ha dato più volte mostra di rifiutare. Riguardo al prossimo referendum, Eugenio Scalfari, intervistato il 14 marzo da ‘La7’, ha forse riassunto meglio di altri le motivazioni che lo portano a essere contrario al nucleare. Scalfari ha detto che “il nucleare comporta molti rischi, se fosse fondamentale per i nostri approvvigionamenti di energia forse voterei a favore, ma è estremamente costoso e non è affatto fondamentale né come prezzo né come quantità e quindi, non essendo necessario, prevale la considerazione del rischio”.

LA CAUTELA DI MOLTI PAESI

Considerando i tempi, i costi e i rischi di nuovi impianti nucleari, viene da chiedersi quale sia stato il motivo che ha portato sotto i riflettori il rinnovato interesse per il nucleare: secondo l’economista Paolo Leon “a livello economico ci conviene importare l’energia dalla Francia”. A prescindere dalle possibili motivazioni, una cosa è certa: in Germania Angela Merkel, ha deciso di posticipare l’inizio dei lavori per prolungare la vita dei diciassette reattori nucleari del paese. La Svizzera ha sospeso le procedure in corso relative alle domande di autorizzazione per nuove centrali nucleari e la città di San Gallo ha deciso, con il 61,4 per cento dei voti, di abbandonare gradualmente l’energia nucleare entro il 2050 utilizzando le energie rinnovabili e promuovendo l’efficienza e il risparmio energetico. Il risultato del referendum fa ora parte del codice comunale cittadino.
In Belgio il ministro dell’Interno Turtleboom, esponente dei liberali fiamminghi da sempre favorevoli all’energia atomica, ha invitato a “incoraggiare le energie rinnovabili perché – si legge in una nota dell’Adnkronos – quello che succede in Giappone avrà un’influenza sulla nostra riflessione a proposito del prolungamento di vita delle centrali belghe”. La stessa Australia, che ha il 30 per cento delle miniere di uranio, ribadisce attraverso il premier Julia Gillard il suo ‘no’ alla costruzione di centrali. La posizione dei laburisti non lascia dubbi “non puntiamo allo sviluppo di un’industria nucleare in questo paese”.
In Canada lo scorso 16 marzo la Ontario Power Generation ha comunicato al Federal Nuclear Regulator canadese lo sversamento nel lago Ontario di circa 73mila litri di acqua demineralizzata dalla centrale nucleare di Pickering, a 35 chilometri a est di Toronto. La centrale è una delle cinque presenti in Canada e sembra che l’incidente sia stato causato dal guasto di una guarnizione. Nonostante le rassicurazioni della Canadian Nuclear Safety Commission, lo sversamento potrebbe essere in realtà molto preoccupante, perché il lago Ontario è la principale fonte di acqua potabile per milioni di persone che vivono nelle sue vicinanze.
Il nostro paese deve ridurre la propria dipendenza energetica dall’estero e investire in un mix di fonti energetiche. Nel corso degli ultimi decenni siamo sempre più diventati energivori, ormai non si può più attendere: bisogna investire in impianti per lo sfruttamento delle fonti energetiche rinnovabili (sole, vento, suolo, acqua, biomasse) e nel risparmio energetico. Basti considerare che in un appartamento, attraverso pareti e finestre, si disperde più della metà dell’energia prodotta dall’impianto di riscaldamento, mentre un buon isolamento può ridurre la dispersione anche del 50 per cento. In un interessante volume del 2009 edito da Feltrinelli, dal titolo La nuova ecologia politica. Economia e sviluppo umano, Jean-Paul Fitoussi e Éloi Laurent scrivono “noi crediamo che sia possibile proseguire sul cammino dello sviluppo umano senza sacrificare gli ecosistemi terrestri, ma a condizione di far crescere il nostro livello di esigenza democratica. L’eguaglianza ecologica è la chiave dello sviluppo durevole. Ma questa nuova ecologia politica ha bisogno, per cominciare, di un grande sforzo di revisione intellettuale” e forse, bisogna iniziare proprio da qui.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

L’articolo si concentra sulla gravità della (reiterata) mancanza di un’analisi seria dietro decisioni che fissano sussidi, in presenza di obiettivi quantitativi già condivisi a livello politico (politica comunitaria 2020). Prima di preoccuparsi del sussidio infatti occorre fissare le modalità e le azioni con cui si vuole conseguire l’obiettivo. Un percorso che deve essere delineato dal legislatore: in quanto correlato alla strategia energetica e ambientale complessiva (se ce ne fosse una!) e al fine di rappresentare gli interessi di tutti (in quanto collettività e non nella somma di interessi). Quindi un’analisi che necessariamente richiede una valutazione analitica dell’efficienza, dell’efficacia e degli effetti redistributivi delle misure di incentivazione. Solo a valle di questa valutazione è possibile selezionare gli strumenti migliori sotto il profilo pubblico.
Ribadisco che nella valutazione è necessario analizzare tutte le produzioni (solare, eolico, bioenergie, geotermia, idro) ma soprattutto tutte le applicazioni con l’obiettivo di promuovere l’efficienza energetica delle produzioni e degli usi e quindi il risparmio di energia primaria e secondaria (gamba fondamentale del tavolo della politica energetica).
In merito al sussidio, cioè l’extracosto rispetto al prezzo dell’energia all’ingrosso, l’articolo vuole mettere in luce la schizofrenia dell’impostazione legislativa in materia di promozione alle rinnovabili elettriche, non solo per i numerosi cambiamenti delle regole del gioco, ma anche per la limitata attenzione ai costi delle tecnologie e ai meccanismi di formazione del sussidio. Il sussidio al solare fotovoltaico e il prezzo di ritiro dei CV in eccedenza sono esempi di come questa scarsa attenzione caratterizzi ancora una volta la legislazione nazionale.
Rispondo, infine, ai commenti sul dato relativo al prezzo di ritiro dei CV in eccedenza su cui probabilmente l’articolo è stato poco chiaro. Per effetto del decreto Romani, il prezzo di ritiro sarà nel periodo 2012-2015 pari al 78% della differenza tra 180 e il prezzo di vendita dell’energia rinnovabile e co-generativa fissato annualmente dall’Aeeg ex art. 13 D.lgs. 387/03. Questa differenza rappresenta anche il prezzo di vendita dei CV nella titolarità di GSE, quindi il prezzo massimo di offerta dei CV o prezzo di riferimento. Prezzo pari nel triennio 2009-2011 a 88,66; 112,82 e 113,1 €/MWh (il 78% di questo prezzo di riferimento è indicato in tabella).
Il prezzo di ritiro fino al 2011, con le regole in vigore prima del decreto Romani è pari al prezzo medio ponderato risultante dagli scambi dei CV nel mercato nel triennio precedente. Prezzo pari nel triennio 2009-2011 ai valori in tabella. La legge 122/10, anche ai fini del contenimento del costo del sussidio, prevedeva il passaggio (dal 2011) al 70% del valore attuale, quindi a valori – riferiti al triennio 2009-2011 indicati in tabella.
Ancora una volta regole che si modificano ma anche meccanismi di formazione dei prezzi che  cambiano senza un approccio analitico e con una visione di breve termine (i periodi transitori).

Tabella: prezzo di ritiro CV nelle diverse fasi legislative

prezzo di ritiro CV con regole ex legge 244/07

(€/MWh)

2009 98,00  
2010 88,91
2011 87,38

prezzo di ritiro CV con regole ex legge 122/10

(€/MWh)

2009 68,60  
2010 62,23
2011 61,16

prezzo di ritiro CV con regole decreto Romani

(€/MWh)

2009 69,16  
2010 87,99
2011 88,22

RINNOVABILI SENZA SUSSIDI AD OGNI COSTO

La riforma dei meccanismi di sostegno alle energie rinnovabili regge sul presupposto di rendere il sistema di incentivi più efficiente e meno costoso per famiglie e imprese. Ma così non sembra, almeno nella transizione. La strada per ridurre i costi del sussidio è un vero riordino delle politiche di promozione della crescita. Che consideri la relazione tra energia primaria e applicazioni d’uso e la relazione tra energia rinnovabile prodotta e consumata. Oltre a rendere evidente il costo del sussidio.

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